



SETTEMBRE 3, 2016
Luca Baldelli
Aleksandr Isaevich Solzhenitsyn, il personaggio al centro delle nostra disamina, nasce, come abbiamo visto, nel 1918, nella in casa della zia Irina, moglie di Roman Scherbak, fratello della madre Taisia. Sarà proprio Irina a rivelare la vera storia dei Solzhenitsyn alla Stern. Roman, grazie anche alla dote della moglie, che rimpingua ulteriormente i suoi non certo trascurabili averi, conduce una vita da nababbo, compiendo frequenti viaggi all’estero e acquistando automobili di lusso: negli anni antecedenti alla Prima Guerra Mondiale è proprietario di una delle nove Rolls Royce immatricolate in Russia. Con la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, per la famiglia Solzhenitsyn il vento cambia: il popolo, sfruttato e angariato da secoli di dominazione, presenta il conto a lorsignori! Le immense ricchezze, guadagnate sul sudore e sul sangue di tanti figli della terra, vengono confiscate e redistribuite tra chi non aveva mai avuto nulla, nemmeno un pezzo di terra dove piantare la cipolla per la zuppa. Più tardi, negli anni ’30, su quelle immense estensioni sorgerà il Kolkhoz “Kirov”. Qui, tra l’altro, almeno fino agli anni ’70 lavorerà Ksenia Vasiljev’na Zagorina, cugina di Solzhenitsyn. Torniamo però, dopo questa breve digressione, ai primi anni del potere sovietico. Taisia, madre vedova, davanti alla sorte avversa si trasferisce a Rostov sul Don, dove trova subito impiego come dattilografa e stenografa. Il potere sovietico, intransigente verso gli sfruttatori e i prepotenti, ma giusto e umano come nessun’altro, non nega un onesto lavoro ad alcuno, nemmeno ai rampolli della più avida borghesia spodestata, i quali invece il lavoro, e finanche la sopravvivenza, l’avevano negati a generazioni intere. Bisogna poi sottolineare che, se da un lato le proprietà terriere della famiglia Solzhenitsyn e dei parenti vengono confiscate, la stessa sorte non subiscono gli averi accumulati in anni e anni, specie tesori, gioielli e denaro. Certi pingui forzieri nessuno va a scovarli, anche perché i provvedimenti varati nel corso degli anni dall’“illiberale” potere sovietico, fino alla Costituzione del 1936, tutelano in maniera rigida l’inviolabilità del domicilio. Il piccolo Aleksandr cresce con la passione per la lettura, ma anche con l’ostilità larvata verso ogni ordinamento teso a cancellare le differenze sociali: questo è il retaggio familiare, insopprimibile, che ne influenza il carattere. Mentre altre famiglie già titolari di cospicue ricchezze si adattano al nuovo sistema sovietico, e anzi i loro membri si costruiscono nuove carriere, circondati dalla stima e dall’apprezzamento di tutti, i Solzhenitsyn, almeno in parte, si mostrano recalcitranti e quasi attendono, con messianica tensione, il momento di un rivolgimento che restauri la situazione passata, il “bengodi” perduto. E’ in questo milieu che si formano il pensiero e la visione del mondo del futuro scrittore. Adolescente, si rifiuta di entrare a far parte dei Pionieri e va regolarmente in Chiesa: la pratica religiosa, del resto, non è affatto proibita e, negli anni ’30 sarà semmai la propaganda ateista a venire ostacolata, sotto la guida saggia ed equilibrata del compagno Stalin, anche per gli eccessi compiuti da trotskisti ed elementi estremisti negli anni precedenti.
Al momento dell’invasione nazista dell’URSS, incoraggiata da tutti i circoli imperialisti, e non voluta soltanto da Hitler, Solzhenitsyn viene arruolato nell’Armata Rossa. Anche in questo caso, il sistema sovietico non solo non lo punisce e non lo ghettizza per il suo albero genealogico, da lui nascosto ma ad altri ben noto, bensì lo premia: distintosi sul campo, viene decorato e promosso fino al grado di Capitano. La riconoscenza è il suo forte, pertanto ricompensa il governo sovietico che l’ha innalzato su un palmo di mano con l’avvio di un’attività mirata al rovesciamento del socialismo! Un’attività eversiva che, scoperta in tempo dagli organi inquirenti, gli procura, ovviamente, non un premio, ma l’arresto e la condanna ad 8 anni per propaganda antisovietica (Art. 58, Comma 10 del Codice Penale) e l’organizzazione di un gruppo antisovietico (Art. 58, Comma 11 del Codice Penale). Di certo, visti gli apprezzamenti espressi nelle sue opere e nei suoi interventi per i collaborazionisti guidati da Vlasov, generale traditore dell’Armata Rossa, c’è da ritenere, ragionevolmente, che quelle accuse fossero in gran parte vere! Ciò che più dà la misura del personaggio, però, anche in questa circostanza, è il contegno tenuto nel contesto dell’interrogatorio e del processo: Solzhenitsyn, al quale peraltro nessuno torce un capello malgrado la sua narrazione bugiarda, coinvolge nelle sue trame anche gente del tutto innocente, che infatti, a riprova di quanto il sistema giudiziario sovietico sia onesto e scrupoloso, specie nel vagliare prove e dichiarazioni, non verranno mai arrestate e non conosceranno la sorte dello scrittore. Nei verbali dei suoi interrogatori, ripercorsi dall’amico Nikolaj Vitkevic, anche lui condannato per propaganda antisovietica, in una lettera a NOVOSTI del 1974, il futuro scrittore tira in ballo persino sua moglie, Natalja Rescetovskaja, gli amici Kirill Simonjan, Lidia Ezherets (consorte di Simonjan) ecc… Confessioni estorte? Vitkevic, che non ne aveva fatte di simili all’NKVD, anzi aveva negato tutto, evidentemente non fu obbligato con la forza a rilasciare una testimonianza compiacente verso l’accusa, ma l’esclude. “Il giorno in cui, liberato, vidi i protocolli dell’interrogatorio di Solzhenitsyn, scrive Vitkevic nella citata lettera, fu il più raccapricciante della mia vita. Questi protocolli dicevano di me cose che non mi ero neppure sognato”. Solzhenitsyn, per apparire “bello” ai giudici, coinvolge altre persone del tutto innocenti nelle sue trame, all’insegna di “muoia Sansone con tutti i filistei”, assolutamente riprovevole. Più tardi, nel libro “La quercia e il vitello”, a metà tra l’autobiografico e lo storico, darà prova della consueta attitudine alla manipolazione delle altrui idee e frasi: infatti, qualificherà le dichiarazioni del suo vecchio amico come una sorta di manovra del KGB e un espediente per non perdere i vantaggi della carriera, quando Vitkevic era uno scienziato stimato da tutti, scevro da ogni problema di “accreditamento” presso questo o quel centro di potere. Solzhenitsyn sosterrà anche che Vitkevic, prima di quella lettera a NOVOSTI, non aveva più parlato con lui da anni, anche solo per contestargli un comportamento rinfacciato poi nello scritto. Ciò, a causa di una sorta di senso di colpa. Falso! Vitkevic (condannato a 10 anni contro gli 8 di Solhenitsyn alla faccia della contiguità al “sistema”!), nella lettera a NOVOSTI dice ben altro, tratteggiando alla perfezione la personalità di Solzhenitsyn. Ecco le sue precise parole: “Quando m’incontrai di nuovo con Solzhenitsyn, non gliene parlai mai (dei fatti inerenti la carcerazione, ndr). Il nostro ultimo incontro ebbe luogo a Rjazan, ove insegnavo in un istituto di medicina, nel 1964. Conoscendo il mio amico ero certo che si sarebbe considerato dalla parte della ragione ed avrebbe detto che era suo compito precipuo salvare per la Russia quel grande scrittore che era”. Altro che malafede di Vitkevic! Semplicemente costui non voleva perder tempo a pestare acqua nel mortaio della presunzione del “gulagologo”. Altra grande falsità riferita a Vitkevic e messa nero su bianco da Solzhenitsyn: nella famosa lettera a NOVOSTI, che si può leggere integralmente tra l’altro nell’agile ed utilissimo libro “Risposta a Solzhenitsyn – L’Arcipelago della menzogna” edito nel 1974 da Napoleone, con la collaborazione in primis della NOVOSTI, Vitkevic avrebbe detto che nel 1945 l’istruttoria fu condotta in modo irreprensibile dal giudice: a parte il fatto che un giudizio simile sarebbe stato tutt’altro che fuori luogo, faccio notare che Vitkevic, in tutto il testo, non riporta assolutamente questo concetto. Anzi, afferma l’esatto contrario rispetto alla dinamica del pronunciamento della sua condanna: “Ebbi l’impressione d’essere stato trattato con ingiustificata severità, ma ritenni che ciò fosse dovuto al fatto che ero stato processato al fronte ed al rigore del periodo bellico”.
I circoli kruscioviani e cosmopoliti, infatti, lo osannano e non stanno nella pelle per aver trovato un calunniatore del periodo staliniano tanto accanito e forbito nel linguaggio, nel registro stilistico. Prima di “Padiglione cancro” e delle altre opere pubblicate clandestinamente in URSS alla fine degli anni ’60 – inizio degli anni ’70, edite poi con gran clamore in occidente e nei Paesi capitalistici, Solzhenitsyn, per più di un lustro, domina il panorama letterario sovietico. Dal 1960 al 1966 circa, e con particolare intensità dal 1962 al 1965, il suo nome riecheggia ovunque e le sue opere trovano il favore di una miriade di riviste, in primo luogo “Novij Mir” guidata dal fervente kruscioviano Tvardovskij, convinto curiosamente che lo sviluppo del socialismo e l’arricchimento culturale del Paese debbano per forza di cose passare per la demolizione dell’era di Stalin. Come se negli anni ’30 non si fosse conosciuta la più mirabolante, effervescente e fantasmagorica esplosione culturale, con operai, impiegati e tecnici, fino a qualche anno prima semianalfabeti o analfabeti totali, a compulsare tomi di scienze matematiche, ad apprezzare i poemi del realismo socialista e della letteratura classica, ad affollare sale da concerto, teatri e cinema, ad intavolare discussioni su argomenti letterari e culturali patrimonio da sempre, nei Paesi borghesi, solo di ristrettissimi circoli. Il tutto, mentre si sviluppa la lotta per gli approvvigionamenti alimentari e tutto il Paese conosce sacrifici che prepareranno poi il terreno al benessere pieno degli anni 1935 – 1940. Tant’è! Nel clima trasudante “liberalismo” kruscioviano nel 1962 – 65, Solzhenitsyn fa il bello e il cattivo tempo e pretende di oscurare, con la sua ombra, tutta la luce che pervicacemente continua ad irrorare il Paese in ogni suo angolo, malgrado la nuova dirigenza del PCUS si muova su un terreno pericoloso di cedimenti e carenze. Riabilitato pienamente nel 1956/57, mette mano alla penna con ossessivo impegno, rivede appunti, completa riflessioni, perfeziona lo stile (peraltro lo si deve riconoscere, brillante ed avvincente, quantunque posto al servizio di una causa errata) e pubblica, sotto la protezione di Tvardovskij e altri, tutta una sequela di opere di vario tenore che riscuotono elevato consenso di pubblico. L’URSS è un Paese di ferventi lettori, al primo posto nel mondo per libri venduti e letti, e per le questioni storico–culturali si dibatte vivamente nel Paese con la stessa passione e la stessa foga con cui, alle nostre latitudini, ci si accalora per il calcio e per lo sport in generale. Nel 1962 è la volta di “Una giornata di Ivan Denisovich”, romanzo sulla vita di un recluso tipo (secondo Solzhenitsyn) nel Gulag sovietico. Comincia da qui, da quest’opera, il tentativo di dipingere i campi di lavoro correttivo e le prigioni dell’URSS come i lager nazisti, senza alcun rispetto per la verità storica e documentale. Questo tentativo raggiungerà l’apoteosi nella monumentale opera di mistificazione e falsificazione che sarà “Arcipelago Gulag”. I circoli anticomunisti mondiali iniziano a vedere Solzhenitsyn come un paladino e lui non fa nulla, del resto, per allontanare sospetti e critiche. Il 1964 segna l’ascesa di Leonid Breznev a Segretario del PCUS. Il nuovo corso intende rettificare errori, mancanze e deficienze del gruppo dirigente kruscioviano e, in primo luogo, di Krusciov in persona, vista la forte impronta “zarista” da lui stampata su scelte e avvenimenti a partire dal 1956. La musica, col nuovo indirizzo di Breznev, Kosygin e Podgornyj, cambia anche in ambito culturale e non per un ordine dall’alto, categoria questa che si ritrova solo nelle pieghe della più volgare sovietologia. Da anni, infatti, sono in molti, nel mondo dell’intellighentzija, e specialmente in ambito letterario, a chiedere una correzione di rotta che mitighi lo strapotere degli scrittori “liberali” e dei fautori del “disgelo” a favore di una maggiore obiettività e pluralità della produzione letteraria, giornalistica, artistica in generale. E sì, perché a dominare la scena, dal 1956, non sono stati certi gli scrittori e i poeti tacciabili di “slavofilia” e di “nazionalbolscevismo”, ma esattamente quelli che hanno gridato ai quattro venti il finto dramma della loro inesistente emarginazione, proprio mentre occupavano la quasi totalità degli spazi disponibili relegando gli altri, i presunti censori, agli angolini e strapuntini della semplice tolleranza.
L’intrepido letterato messosi al servizio dell’imperialismo, però, non si accontenta di questo: falsifica passi interi delle opere di Lenin, come quando pretende di sostenere che il padre della Rivoluzione d’Ottobre abbia detto: “Il terrore è un mezzo di persuasione” indicando come fonte il Vol. XXXIX delle Opere, pagine 404–405. Una semplice ricerca, ci mostra come Lenin abbia detto tutt’altro, parlando del terrorismo collaudato e imposto dalle armate bianche durante la guerra civile: “Se tentassimo d’influire su queste truppe, costituite dal banditismo internazionale e inferocite dalla guerra, con le parole, con la persuasione, con mezzi diversi dal terrore, non reggeremmo nemmeno per due mesi: saremmo degli stupidi”. Un ragionamento chiaro, contingente, lapalissiano, spacciato per programma politico permanente da Solzhenitsyn. Una malafede più evidente è difficilmente immaginabile.

Come si legge in 2000 pagine, cit., il manoscritto andò smarrito nei giorni dell'arresto di Gramsci e fu ritrovato da Camilla Ravera tra le carte che Gramsci abbandonò nell'abitazione di via Morgagni.
Il saggio fu pubblicato nel gennaio 1930 a Parigi nella rivista Stato Operaio, con una nota in cui è detto: «Lo scritto non è completo e probabilmente sarebbe stato ancora ritoccato dall'autore, qua e là. Lo riproduciamo senza alcuna correzione, come il migliore documento di un pensiero politico comunista, incomparabilmente profondo, forte, originale, ricco degli sviluppi piú ampi. ».
Per un altro spunto (se ce ne fosse ancora bisogno) sulla questione elettorale borghese
di Antonio Gramsci , scritto nel maggio del 1925, pubblicato in Lo Stato operaio del marzo-aprile 1931. Introduzione al primo corso della scuola interna di partito
Articolo apparso su L'Ordine nuovo anno II n.10 del 17 luglio 1920 a firma Caesar
Articolo non firmato, L’Ordine Nuovo, 4 settembre e 9 ottobre 1920.
(l'Unità, 16 marzo 1926, anno 3, n. 64, articolo non firmato)
(l’Unità, 5 febbraio 1925, anno 2, n. 27, articolo non firmato)
Votare o non votare, è questo il problema?
" FCA, la fabbrica modello "
Lo scorso 19 giugno, con i ballottaggi, si sono consumate le ennesime elezioni previste dal sistema democratico borghese. Si trattava di elezioni amministrative ma di alto significato politico nazionale.
