☭    "Non è difficile essere rivoluzionari quando la rivoluzione è già scoppiata e divampa... È cosa molto più difficile - e molto più preziosa - sapere essere rivoluzionari quando non esistono ancora le condizioni per una lotta diretta, aperta, effettivamente di massa, effettivamente rivoluzionaria; saper propugnare gli interessi della rivoluzione (con la propaganda, con l'agitazione, con l'organizzazione) nelle istituzioni non rivoluzionare, sovente addirittura reazionarie, in un ambiente non rivoluzionario, fra una massa incapace di comprendere subito la necessità del metodo rivoluzionario di azione"     ☭    



Cenni Storici

Lotte operaie : cenni storici dal 43 ad oggi


8,Novembre,2019
Appunti fine Maggio 2019
Le agitazioni dell’estate 1942 e dei primi due mesi dell’anno successivo promuovono all’inizio del marzo 1943 una protesta più ampia ed estesa. La scintilla scatta dopo l’emanazione di un provvedimento di indennità straordinaria per i lavoratori sfollati (concessione di 192 ore di paga), provocando la reazione di quelli non sfollati che chiedono l’assegnazione delle 192 ore per tutti. Alle 10 in punto di ogni mattina, nelle fabbriche torinesi, risuona la sirena della prova di allarme antiaereo. È questo il segnale di inizio delle agitazioni dei lavoratori che, insieme alla concessione dell’indennità di sfollamento, chiedono anche l’aumento del salario e del razionamento. Il 1° marzo uno sciopero programmato alla Fiat Mirafiori fallisce senza riuscire a generalizzare la protesta. Il 5 marzo, ancora alla Fiat Mirafiori, la direzione ordina di non azionare la sirena; un gesto che non impedisce la fermata di alcuni reparti. Lo stesso giorno un’altra agitazione scoppia alle Officine Rasetti, propagandosi nelle altre fabbriche cittadine. È il primo atto degli scioperi del marzo 1943, per il pane, la pace e la libertà, che tra il 5 e il 17 marzo coinvolgono oltre 100.000 operai. La repressione, 850 arresti e il ritiro di centinaia di esoneri, e l’apertura alle principali rivendicazioni degli scioperanti fanno riprendere il lavoro giovedì 18 marzo. Da Torino, gli scioperi si estendono in tutto il Piemonte e nelle fabbriche delle principali città del Nord. Le giornate del marzo 1943 rappresentano una svolta, poiché dietro alle richieste economiche si cela una precisa volontà politica, e cioè la fine della guerra e il crollo del fascismo.

8 luglio 1962: la rivolta di Piazza Statuto

L'otto luglio 1962, a Torino in Piazza Statuto si verificano violenti scontri tra gli operai metalmeccanici in sciopero e le forze dell'ordine. Gli scontri proseguivano dal giorno precedente e continueranno fino al 9. Lo sciopero era stato indetto per il 7 da Fiom e Fim in solidarietà alle lotte portate avanti alla Fiat dall'inizio di giugno. Lo sciopero ebbe un successo assoluto: nella maggior parte delle fabbriche i picchetti bloccarono completamente la produzione, alcuni dirigenti vennero malmenati e fu impossibile per la polizia mantenere la situazione sotto controllo davanti ai cancelli.
A Mirafiori ed in altri stabilimenti si ebbero scontri sin dal primo mattino e proprio nella mattinata si diffuse la notizia che fece scoppiare la rivolta di piazza Statuto: la Uil e la Sida erano giunte ad un accordo separato con la dirigenza della Fiat. La risposta operaia fu rapida e determinata: in breve tempo circa 7'000 operai si radunarono in piazza Statuto per dare assalto alla sede della Uil. Gli scontri iniziarono particolarmente intensi. Da un lato gli operai disselciano la piazza e spaccano le enormi e pesantissime lose dei marciapiedi, impugnano cartelli stradali e catene, dall'altro la polizia carica inondando di gas lacrimogeni la piazza e lanciando a folle velocità le jeep. Importante è ricordare il ruolo che ebbero il Pci e la Cgil nello svolgersi degli avvenimenti. Di fronte ad uno scontro radicale, che non seppero né valutare lucidamente né controllare,. i dirigenti intervennero per cercare inutilmente di convincere gli operai a fermare gli scontri e liquidarono l'accaduto definendo i manifestanti "elementi incontrollati ed esasperati", "piccoli gruppi di irresponsabili", "giovani scalmanati". Alla fine dei disordini gli arrestati e i denunciati furono un migliaio. La composizione di quella piazza, animata principalmente da operai giovani ed immigrati meridionali ci fa capire come le tre giornate di piazza Statuto segneranno un momento di svolta nella storia del movimento operaio. A due anni dai fatti di Genova, ritroviamo in piazza lavoratori che molto hanno in comune con i "ragazzi con le magliette a strisce". Piazza Statuto fu senza dubbio il luogo nel quale si ebbe una delle prime e più significative esplosioni conflittuali di cui fu protagonista l'operaio massa. Da quei tre intensissimi giorni gli operai non poterono che uscire avendo chiaro che, come scrisse Quaderni Rossi "decidere tocca a voi, voi dovete prendere in mano il vostro destino. Questo sciopero è una grande occasione per far fare un passo avanti alla organizzazione della classe. Da questa lotta potrete uscire avendo fatto di ogni squadra, di ogni reparto, di ciascuno degli stabilimenti Fiat la realtà di una organizzazione, di una disciplina operaia capace in ogni momento di contrapporsi allo sfruttamento, agli arbitrii, al dispotismo del padrone e dei suoi lacchè".

Manifestazione Fiom a reggio emilia anni '50

Reggio Emilia 1950-1960: un decennio di conflitti
Il decennio 1950-1960, delimitato dalle lotte delle Officine “Reggiane” e dai fatti del 7 luglio, costituisce per Reggio Emilia una fase cruciale della propria storia e può essere definito come l'epoca dei conflitti. Molto acuti sono, infatti, gli antagonismi economici, politici e culturali che, nel periodo di tempo qui considerato, si esprimono attraverso una molteplicità di canali e forme e permeano l'intero tessuto sociale.
La strage di Reggio Emilia è un fatto di sangue avvenuto il 7 luglio 1960 nel corso di una manifestazione sindacale durante la quale cinque operai reggiani, i cosiddetti morti di Reggio Emilia, tutti iscritti al PCI e alla FIOM furono uccisi dalle forze dell'ordine.
Un momento degli scontri avvenuti a Genova
La strage fu l'apice di un periodo di alta tensione in tutta l'Italia, in cui avvennero scontri con l polizia. I fatti scatenanti furono la formazione del governo Tambroni,
La sera del 6 luglio la CGILreggiana proclamò lo sciopero cittadino di protesta contro le violenze dei giorni precedenti. La prefettura proibì gli assembramenti nei luoghi pubblici e concesse unicamente i 600 posti della Sala Verdi per lo svolgimento del comizio.
L'indomani il corteo di protesta era composto da circa 20.000 manifestanti. Un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decise quindi di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta.
Alle 16.45 del pomeriggio una carica di un reparto di 350 poliziotti, al comando del vicequestore Giulio Cafari Panico, investì la manifestazione pacifica. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica. Incalzati dalle camionette, dai getti d'acqua e dai lacrimogeni, i manifestanti cercarono rifugio nel vicino isolato San Rocco, per poi barricarsi letteralmente dietro ogni sorta di oggetto trovato, seggiole, assi di legno, tavoli dei bar e rispondendo alle cariche con lancio di oggetti. Respinte dalla disperata resistenza dei manifestanti, le forze dell'ordine impugnarono le armi da fuoco e cominciarono a sparare.

Sul selciato della piazza caddero:
Lauro Farioli (1938), operaio di 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un bambino.
Ovidio Franchi (1941), operaio di 19 anni, il più giovane dei caduti.
Marino Serri (1919), pastore di 41 anni, partigiano della 76a, primo di sei fratelli.
Afro Tondelli (1924), operaio di 36 anni, partigiano della 76a SAP, è il quinto di otto fratelli.
Emilio Reverberi (1921), operaio di 39 anni, partigiano nella 144a Brigata Garibaldi, era commissario politico nel distaccamento "G. Amendola".

Furono sparati 182 colpi di mitra, 14 di moschetto e 39 di pistola, e una guardia di PS dichiarò di aver perduto 7 colpi di pistola
Sedici furono i feriti "ufficiali", ovvero quelli portati in ospedale perché ritenuti in pericolo di vita, ma molti altri preferirono curarsi "clandestinamente", allo scopo di non farsi identificare.

I fatti di Corso Traiano
3 luglio 1969, Torino: la battaglia di corso Traiano
La battaglia di corso Traiano, Torino 3 luglio 1969, è uno dei punti più alti del biennio rosso e anticipa l’esplosione dell’autunno caldo. Già narrata magistralmente da Nanni Balestrini in Vogliamo tutto, la autobiografia di uno dei protagonisti della rivolta, Alfonso Natella, è diventata epica di movimento con la Ballata della Fiat.

Movimenti rivoluzionari all'interno delle fabbriche dagli anni '70

All'interno del movimento operaio e soprattutto nei consigli di fabbrica, dove i comunisti erano la maggioranza, si svilupparono forme di autorganizzazione che mettevano in discussione la politica del sindacato e quello dello stesso partito (PCI) che, via via, assumeva sempre più posizioni riformiste; da qui la nascita delle BR che costituisce una svolta per le lotte dei lavoratori, contribuendo a emanciparle e costringendo i sindacati a intervenire con un po' più di vigore nella loro linea, per non rimanere indietro e/o isolati.
Molti compagni/e e simpatizzanti/e delle BR erano impegnati/e delle fabbriche torinesi e nel resto del paese, con mirate campagne a sostegno dei bisogni primari e immediati espressi dalla classe operaia e proletaria.

35 giorni della fiat 1980
Marcia dei quarantamila


La marcia dei quarantamila o dei quarantamila quadri FIAT fu una manifestazione tenutasi a Torin o il 14 ottobre1980.
Migliaia di impiegati e quadri della FIAT sfilarono per le strade del capoluogo piemontese in segno di protesta contro i picchettaggi che impedivano loro, da 35 giorni, di entrare in fabbrica. La manifestazione ebbe come effetto diretto quello di spingere il sindacato a chiudere la vertenza con un accordo favorevole alla FIAT. Viene convenzionalmente indicata come l'inizio di un radicale cambio di relazioni tra grande azienda e sindacato nel Paese.
In retrospettiva la marcia è vista come l'inizio della frattura dell'unità tra i salariati del ceto medio (i cosiddetti colletti bianchi) e quelli della catena di montaggio (o tute blu).
Contesto storico
L'8 maggio 1980, due giorni dopo l'insediamento di Vittorio Merlon alla guida di Confindustria, la FIAT, in crisi, propose la cassa integrazione per 78000 operai per 8 giorni.
Il 31 luglioUmberto Agnelli si dimise da co-amministratore delegato dell'azienda, lasciando il solo Cesare Romiti nella carica. Quest'ultimo era il capofila in azienda della linea dura antisindacale, già messa in mostra nell'estate dell'anno precedente e culminata il 9 ottobre 1979 con il licenziamento di 61 operai sospettati di contiguità con il terrorismo e accusati — in gran parte senza alcun fondamento, dal momento che solo quattro condanne furono irrogate in generale nei confronti di detti lavoratori — di violenze in fabbrica
Gli avvenimenti :
Il 5 settembre 1980 si registrò un nuovo capitolo della crisi tra azienda e sindacato quando la FIAT preannunciò la messa in cassa integrazione di 24000 dipendenti — 22000 dei quali operai — per 18 mesi.
Dopo quasi una settimana di difficili trattative l'azienda annunciò l'11 successivo 14469 licenziamenti.
Il consiglio di fabbrica, in risposta alla decisione aziendale, proclamò lo sciopero con decorrenza immediata, cui fece seguito il blocco dei cancelli di Mirafiori e il picchettaggio degli accessi.
L'apice della protesta fu la mattina del 26 settembre quando Enrico Berlinguer, a Torino per un comizio che avrebbe dovuto tenere quella sera in piazza San Carlo, espresse agli scioperanti il pieno appoggio del Partito Comunista Italiano e l'impegno a costringere il governo, in sede istituzionale, a dichiarare quale fosse la sua posizione sulla vicenda, lasciando anche presupporre sostegno politico nel caso in cui il consiglio di fabbrica avesse deciso l'occupazione dei luoghi di produzione]. Il giorno seguente, a seguito della caduta del governo Cossiga II e la mancanza di un interlocutore istituzionale, la FIAT sospese le procedure di licenziamento[e si accordò con i sindacati confederali per la messa in cassa integrazione di 24000 dipendenti e l'uscita dal lavoro di quelli più anziani tramite prepensionamenti

Era Marchionne 2008

Il 13 e il 14 gennaio prossimi i lavoratori dello stabilimento Fiat Mirafiori di Torino saranno chiamati a decidere se accettare o meno l’accordo proposto dall’ad del gruppo Sergio Marchionne e già accettato dalle sigle sindacali, ad eccezione di Fiom-Cgil e Cobas. Definire, però, il referendum del tutto inutile e di facciata è poco più che un eufemismo.
Anche nell’altra storica fabbrica Fiat in Italia, a Pomigliano d’Arco, le modalità furono simili. Anche allora la sospensione di alcuni diritti dei lavoratori in cambio del mantenimento della produzione automobilistica in Italia fu accolta dalle parti sociali come una “eccezione straordinaria”. Le sigle contrarie (la Fiom su tutte, anche lo scorso anno) invece avvertirono il Paese del possibile rischio che tali pratiche diventassero di ordinaria amministrazione nella lotta sociale e che l’episodio successivo avrebbe colpito Mirafiori, com’è puntualmente capitato. Ancora una volta, le tute blu si trovano di fronte al dilemma di scegliere tra gli investimenti dell’azienda sul loro polo industriale a scapito di alcuni diritti, oppure radicalizzare la loro difesa cedendo all’ennesima esternalizzazione della manodopera verso mercati più convenienti. Per i 5.000 di Mirafiori una scelta davvero difficile, se non drammatica, seppur scontata.
Sulla prima pagina de Il Sole 24 ore, all’indomani della firma dell’accordo del 23 dicembre, si leggeva del patto tra azienda e parti sociali come di«un accordo storico» e leggendo i vari punti messi in discussione dalla Fiom, effettivamente, si capisce sia realmente unico nel suo genere. Ma non nel senso positivo sottolineato dal giornale di Confindustria.
Se nel primo miliardo e sette di investimento complessivo (tra Pomigliano e Mirafiori) una parte importante è rappresentata dagli obblighi di formazione che l’azienda vuole assicurare ai suoi dipendenti, i punti che hanno provocato le fibrillazioni sono decisamente più evidenti (qui la copia dell’accordo sottoscritto). Il principio generale sotteso è che, oggi, un’intesa tra imprenditore e sigle sindacali (anche se non tutte quelle votate all’interno delle rappresentanze) possa derogare il contratto collettivo di lavoro anche con clausole peggiorative. La confusione e la contraddittorietà della giurisprudenza in tema del cd.“principio di inderogabilità in peius“da parte dei singoli accordi rispetto a quelli collettivi e alla legge ha lasciato spazio alla sottoscrizione di alcune sospensioni evidenti dei diritti dei lavoratori.
Rappresentanze sindacali – A Mirafiori terminerà l’era dell’RSU (rappresentanza sindacale unitaria, che oggi vede la Fim-Cisl primo sindacato e Fiom-Cgil secondo) a favore della RSA (rappresentanza sindacale aziendale), per limitare la presenza di sindacati firmatari l’accordo e non eletti, di fatto, dai lavoratori, ma direttamente dalle sigle. Con questa scelta, la Fiom sarebbe fuori dalla fabbrica torinese.
Per Sergio Marchionne l’accordo del gruppo Fiat rappresenta “una svolta storica”. Su questo punto ha ragioneperché l’intesa conclude quel percorso avviato con il piano Fabbrica Italia e passato attraverso le “battaglie” di Pomigliano, prima e di Mirafiori, poi. Marchionne ottiene l’obiettivo che si era dato quando impose l’accordo separato di Pomigliano e il relativo referendum: avere un contratto speciale, valido solo per i propri stabilimenti, privo delle strettoie che impongono le regole di concertazione a cui è ancora sottoposta la Confindustria dalla quale, non a caso, la Fiat è uscita. Nelle aziende della famiglia Agnelli, il sindacato ha ormai come controparte un industria che ha sedi in tutto il mondo che, come dice il presidente John Elkann, conserva il suo cuore in Italia ma che sempre più ha spostato il cervello negli Stati Uniti. L’intesa siglata, con la collaborazione decisiva dei sindacati, è cucita addosso alle caratteristiche globali dell’azienda Fiat ma soprattutto alla sua politica di sviluppo ed espansione che poggia non tanto sulla capacità di innovazione dei prodotti quanto sulla maggiore flessibilità del lavoro. Nel gruppo Fiat, da gennaio 2012, saranno ridotte le pause, gli straordinari saranno portati da 40 a 120 oreannue, i turni a 18 su sei giorni ma soprattutto saranno introdotte limitazioni per le assenze malattia e sanzioni per chi viola l’accordo stesso. Difficile capire quanto tutto questo possa aiutare a vendere più auto. Il progetto Fabbrica Italia, del resto, è stato messo nel cassetto dopo che la Consob si è azzardata a chiedere maggiori chiarimenti e le prospettive industriali dell’azienda restano nere. Marchionne ha puntato alla produzione di 6 milioni di autovetture nel 2014 ma al momento il gruppo Fiat-Chrysler è fermo a 4 milioni e la recessione deve ancora venire. Nuovi modelli non se ne vedono e gli stabilimenti sono falcidiati dalla cassa integrazione.
Marchionne ottiene, per il momento, soprattutto un risultato politico, l’estromissione della Fiom dalle sue fabbriche. Il sindacato più rappresentativo del gruppo viene di fatto cancellato da un giorno all’altro.
L’accordo apre poi un’altra partita nel campo delle relazioni sindacali. Per evitare di essere esclusa dagli stabilimenti Fiat, la Fiom chiede al governo una riforma dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori che regola la rappresentanza sindacale. Secondo tale norma, hanno accesso alla rappresentanza solo i sindacati che siglano gli accordi aziendali nonostante la loro rappresentatività. La Fiom chiede di ripristinare questo aspetto ma la sua richiesta ha già prodotto una ferma reazione della Fiat che non accetterebbe mai una tale riforma. Solo che, allo stesso tempo, il governo vuole rivedere l’intero pacchetto del mercato del lavoro con riforme dell’articolo 18dello Statuto, una maggiore flessibilità in uscita con la probabile introduzione di un contratto unico di inserimento, un reddito garantito con la riforma degli ammortizzatori sociali. Tutto questo si tiene e la modifica dell’articolo 19 si inserirebbe in questo contesto. La Confindustria sarebbe d’accordo e non è detto che la Cgil e la stessa Fiom non siano disponibili a una discussione complessiva. Da qualsiasi punto lo si guardi, il contratto Fiat apre una nuova stagione di relazioni sindacali e sarà propedeutico a modifiche  strutturali del mercato del lavoro.
L’articolo 18 della legge 300 del 20 maggio 1970, meglio nota come “Statuto dei diritti dei Lavoratori”, è stato sostanzialmente abolito -dopo le modifiche introdotte dalla Legge Fornero – nel 2014 dal “Jobs Act”, la legge n. 183 del 10 dicembre. Ma è stato un grande errore. Da ben prima che ciò accadesse -c’erano stati due referendum nei primi anni 2000- è sempre stato al centro di ogni dibattito sul lavoro. Non tanto lo Statuto dei Lavoratori nel complesso, quanto proprio il suo 18esimo articolo. Perché?
Fondamento di questa norma nella sua versione originaria era il principio morale e soprattutto costituzionale su cui si basava l’obbligo del ‘reintegro’ -solo per le imprese con più di 15 dipendenti- del lavoratore ingiustamente licenziato. Principio che non era soltanto da intendersi come diritto del lavoratore, ma come diritto del cittadino: il Lavoro, come recitano gli articoli 1 e 3 della Costituzione, non è solo il valore sul quale si fonda la Repubblica, ma è un elemento di “dignità morale” di ogni individuo.

Evoluzione politica nel nostro Paese

Il governo penta-fascista M5S -Lega sta proseguendo con l'emanazioni di leggi sempre più repressive. Il decreto sicurezza voluto dalla lega e sottoscritto dal M5S, acuisce la repressione anche trasformando reati di carattere amministrativo in reati penali, attaccando seriamente le lotte operaie e sociali che mettono in atto questo genere di pratiche. Inoltre sono in aumento inchieste giudiziarie e provvedimenti di carattere preventivo contro i militanti rivoluzionari e i militanti delle lotte sociali. La controrivoluzione preventiva sta assumendo sempre più carattere di massa in quanto crescono le misure che colpiscono principalmente il proletariato, e che potrebbero sollevare ribellioni diffuse che, se orientate in senso rivoluzionario, metterebbero in seria difficoltà la classe dominante e l'apparato repressivo.

Decreto Salvini

Il 5 ottobre scorso, il giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, è entrato in vigore il decreto legge 113/2018, il cosiddetto decreto Salvini sulla sicurezza, che, in particolare sul tema dell’immigrazione, rappresenta una ulteriore pesante regressione rispetto ai diritti dei migranti e ai principi fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione borghese.
Viene reintrodotto il reato di blocco stradale (che era stato depenalizzato nel 1999), sanzionato, se il fatto è commesso da più persone, con la pena della reclusione da 2 a 12 anni.
Si è trattato di vicende a cui hanno partecipato centinaia di persone, nell’ambito di manifestazioni che esprimevano, le une, la rabbia per quanto accaduto a Luca e per la militarizzazione crescente della Val di Susa, le altre, la volontà di impedire l’arrivo di alcuni componenti della talpa che doveva effettuare i lavori nel tunnel geognostico di Chiomonte.
Bene, se quelle manifestazioni venissero fatte oggi, i partecipanti rischierebbero pene elevatissime e, con ogni probabilità, l’applicazione di misure cautelari, visto i criteri guida utilizzati negli ultimi anni dagli uffici giudiziari torinesi. Tutto ciò in perfetta armonia con le roboanti dichiarazioni, ahimè quasi giornaliere, del ministro dell’interno, che sembra avere in odio qualsiasi forma di protesta o di conflitto sociale.


Redazione Aurora Proletaria









Antono Gramsci:Alcuni temi della quistione meridionale

Come si legge in 2000 pagine, cit., il manoscritto andò smarrito nei giorni dell'arresto di Gramsci e fu ritrovato da Camilla Ravera tra le carte che Gramsci abbandonò nell'abitazione di via Morgagni.
Il saggio fu pubblicato nel gennaio 1930 a Parigi nella rivista Stato Operaio, con una nota in cui è detto: «Lo scritto non è completo e probabilmente sarebbe stato ancora ritoccato dall'autore, qua e là. Lo riproduciamo senza alcuna correzione, come il migliore documento di un pensiero politico comunista, incomparabilmente profondo, forte, originale, ricco degli sviluppi piú ampi. ».




Questione elettorale borghese

Per un altro spunto (se ce ne fosse ancora bisogno) sulla questione elettorale borghese

Necessità di una preparazione ideologica di massa

di Antonio Gramsci , scritto nel maggio del 1925, pubblicato in Lo Stato operaio del marzo-aprile 1931. Introduzione al primo corso della scuola interna di partito




La legislazione comunista

Articolo apparso su L'Ordine nuovo anno II n.10 del 17 luglio 1920 a firma Caesar

Antonio Gramsci : Il Partito Comunista

Articolo non firmato, L’Ordine Nuovo, 4 settembre e 9 ottobre 1920.




Antonio Gramsci - Riformismo e lotta di classe

(l'Unità, 16 marzo 1926, anno 3, n. 64, articolo non firmato)




Antonio Gramsci : La funzione del riformismo in Italia

(l’Unità, 5 febbraio 1925, anno 2, n. 27, articolo non firmato)




Referendum sulla costituzione

Votare o non votare, è questo il problema?

Lettera di un operaio FIAT di Torino

" FCA, la fabbrica modello "

Elezioni borghesi: un espediente per simulare il consenso popolare!

Lo scorso 19 giugno, con i ballottaggi, si sono consumate le ennesime elezioni previste dal sistema democratico borghese. Si trattava di elezioni amministrative ma di alto significato politico nazionale.