☭    "Non è difficile essere rivoluzionari quando la rivoluzione è già scoppiata e divampa... È cosa molto più difficile - e molto più preziosa - sapere essere rivoluzionari quando non esistono ancora le condizioni per una lotta diretta, aperta, effettivamente di massa, effettivamente rivoluzionaria; saper propugnare gli interessi della rivoluzione (con la propaganda, con l'agitazione, con l'organizzazione) nelle istituzioni non rivoluzionare, sovente addirittura reazionarie, in un ambiente non rivoluzionario, fra una massa incapace di comprendere subito la necessità del metodo rivoluzionario di azione"     ☭    



Cenni Storici

Il messaggio di Hiroshima


Terzo capitolo del libro “Il secolo corto” di Filippo Gaia


Il 6 agosto 1945, quarantuno giorni dopo che gli Stati Uniti avevano fatto approvare e sottoscrivere a San Francisco il loro schema per le Nazioni Unite e la "Carta" con la quale si bandiva in linea di principio il ricorso alla violenza bellica nelle relazioni fra Stati, e quattro giorni dopo la conclusione della Conferenza di Potsdam, l'aviazione americana distrusse la città giapponese di Hiroshima, di 340.000 abitanti, con la prima bomba atomica usata dall'uomo sull'uomo nella storia dell'umanità. Alle 8,15 del mattino tre bombardieri B-29 provenienti da nord a 8.500 metri di quota apparvero improvvisamente nel cielo. Uno di essi si staccò dalla formazione e scese in picchiata sulla città, sganciando una unica bomba di potenza pari a 12,5 chilotoni di TNT, al nucleo di uranio. Dopo una caduta di circa un minuto, la bomba esplose a 564 metri d'altezza con una terrificante detonazione producendo una sfera di fuoco di centinaia di metri di diametro formata di gas roventi, a una temperatura di oltre 300.000 gradi.
Come un'idra a tre teste, la bomba produsse tre tipi di forze distruttive: un'onda d'urto di violenza enorme, procedente alla velocità del suono, che appiattì al suolo tutti gli edifici per un raggio di due chilometri; raggi termici con una temperatura superiore a quella della superficie solare, che produssero bruciature sulle parti esposte dei corpi umani fino a una distanza di 3 chilometri e mezzo; e radiazioni propagatesi con la velocità della luce, la cui efficacia mortale era destinata a perdurare nel tempo. Il 35% dell'energia totale prodotta dalla bomba consisteva in raggi termici, circa il 50% dell'energia era contenuto nell'onda d'urto esplosiva, e circa il 15% era energia radioattiva.
Una colonna di fumo a forma di fungo si levò pressoché istantaneamente dal centro dell'esplosione e salì a 3.000 metri di altezza in 48 secondi, e in otto minuti e mezzo raggiunse i confini fra la troposfera e la stratosfera.
Circa 20 minuti dopo l'esplosione, su Hiroshima si sviluppò una tempesta di fuoco causata dalla rarefazione dell'aria sovrastante la zona colpita dalla bomba; si manifestò con un forte vento proveniente da tutte le direzioni verso il centro della zona colpita. Il vento raggiunse una velocità massima di 60 chilometri circa due o tre ore dopo l'esplosione e perdurò diminuendo di intensità per circa 6 ore, cambiando più volte direzione, sollevando le lamiere zincate dei tetti, tizzoni ardenti e materiali infiammati che mulinavano e ricadevano qua e là portando distruzione e morte. Il vento fu accompagnato da una pioggia intermittente, densa e vischiosa, provocata dalla condensazione del vapore acqueo contenuto nella massa d'aria ascendente. Leggera al centro e più forte a circa 1.200 metri dal punto zero, verso nord e verso ovest, la pioggia, definita dalla voce popolare "la pioggia nera", determinò la ricaduta a terra di particelle radioattive di cui la nube atomica era carica e fu causa di un numero enorme di vittime per contaminazione. Dosi mortali di radiazione iniziale ricaddero fino a 1.200 metri dal punto zero. Dosi di radiazione semi-mortale di 400 curies furono constatate a distanze molto maggiori. La tempesta di fuoco fece sì che ogni materiale o struttura combustibile fossero distrutti.
Decine di migliaia di persone morirono istantaneamente. Migliaia di esseri umani, i più vicini al centro delle esplosioni, letteralmente scomparvero, dissolte dal fuoco atomico. Nel corso delle due prime settimane dopo i bombardamenti, il numero dei morti, compresi quelli periti all'istante, superò i 150.000-160.000. Alla fine di dicembre del 1945 il numero delle vittime prodotte dalla "malattia atomica" aveva portato a un totale di 190.000-230.000 (130.000-150.000 per Hiroshima e 60.000-80.000 per Nagasaki).
Quando la radio giapponese in lingua inglese "Tokio Rose" annunciò che gli effetti delle radiazioni facevano molti morti fra i sopravvissuti alle esplosioni, gli ambienti ufficiali a Washington manifestarono viva sorpresa. Quando il rapporto sui decessi e le malattie causate dalle radiazioni giunse a Washington, i capi militari respinsero l'informazione definendola «propaganda giapponese» non corrispondente «ad alcun dato scientifico conosciuto». Da allora si discute su due dubbi: l'uno che gli scienziati, i politici e i militari sapessero poco della bomba quando decisero di utilizzarla; l'altro, che sapessero tutto e che abbiano agito con efferato cinismo. Ciò che vi è di certo è che la malattia atomica ha continuato a mietere in Giappone decine di migliaia di vittime negli anni e nei decenni successivi.
Il responsabile militare del progetto per la bomba atomica riferì al Senato americano sui danni inferti: «A Hiroshima fu praticamente arsa e distrutta ogni cosa entro un raggio di due chilometri dal punto dello scoppio. Fra i 2 e i 3 chilometri dal punto dell'esplosione la distruzione fu totale, e i danni da incendio parziali. Da 3 fino a 5 chilometri di raggio, ogni cosa venne distrutta al 50%. Oltre un raggio di 5 chilometri i danni furono abbastanza lievi, con rottura dei tetti fino ad una distanza di 8 chilometri. I vetri si ruppero fino ad un raggio di 20 chilometri» (1).
Harry Truman, che attendeva informazioni a bordo dell'incrociatore Augusta al largo delle coste atlantiche degli Stati Uniti commentò: «È il più grande giorno della storia». Nella notte fra il 6 e il 7 agosto parlò alla radio per annunciare: «È una bomba atomica. Abbiamo dominato l'energia fondamentale dell'universo. La forza da cui il sole trae la sua potenza è stata lanciata contro coloro che hanno portato la guerra in Estremo Oriente».
Alle 11,02 del 9 agosto 1945, tre giorni dopo, una seconda bomba atomica, questa al nucleo di plutonio e di una potenza quasi doppia rispetto a quella di Hiroshima, pari a 22 chilotoni di TNT, fu sganciata sulla città di Nagasaki, popolata di 195.000 abitanti. Lo stesso giorno, conformemente agli impegni presi a Yalta, l'URSS dichiarò guerra al Giappone.
Il 10 agosto Truman parlò di nuovo alla radio. Dopo una esposizione ottimistica della situazione internazionale all'indomani della Conferenza di Potsdam e un breve commento sull'entrata delle truppe sovietiche in Manciuria, il presidente illustrò agli Americani l'importanza dell'impiego della nuova bomba. Nello stesso tempo, il messaggio radiofonico forniva al mondo una indicazione inequivoca su ciò che vi era da attendersi dagli Stati Uniti: «(...) In questi primi attacchi desideravamo evitare quanto più possibile di uccidere dei civili. Ma non è che un avvertimento. Se il Giappone non si arrenderà, altre bombe saranno sganciate sulle sue industrie belliche e, purtroppo, migliaia di civili moriranno. Invito i Giapponesi ad abbandonare immediatamente le città industriali e a sottrarsi alla distruzione. La bomba atomica è troppo pericolosa per essere consegnata ad un mondo senza legge. Per questo motivo la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Canada, che possiedono il segreto della sua produzione, non hanno l'intenzione di rivelarlo, fino a che non si saranno trovati i mezzi per controllare questa bomba e per proteggerci, noi e il resto del mondo, da una distruzione totale. Ci costituiamo in depositari di questa nuova forza, al fine di evitare che ne sia fatto un uso pericoloso, e per orientarne l'utilizzo per il bene dell'umanità».
La frase conclusiva conteneva una esplicita affermazione di egemonia universale di cui l'arma nucleare si annunciava come lo strumento: «Siamo in grado di dire che usciamo da questa guerra come la nazione più potente del mondo. La nazione più potente, forse, di tutta la storia» (2). Era la proclamazione della "Pax americana", divenuta poi sinonimo di guerra atomica.
Il numero complessivo delle perdite umane causate dai due bombardamenti non ha mai potuto essere stabilito con esattezza, ma si dà la cifra di 300.000 morti come la più vicina alla realtà.
La questione se l'uso dell'arma atomica sul Giappone con il sacrificio di trecentomila vite sia stato o no militarmente necessario per ottenerne la resa è una di quelle che più hanno tormentato le generazioni che sono state testimoni dell'avvento dell'era atomica. Abbiamo visto nel capitolo precedente che Stalin a Potsdam comunicò a Truman l'intenzione di resa dell'imperatore Hirohito. Ma il governo americano aveva già ricevuto in giugno direttamente, attraverso un canale diplomatico portoghese, un'offerta di resa immediata del Giappone. La sola condizione posta era che fosse preservata la monarchia nipponica.
Le due bombe atomiche furono sganciate sul Giappone, ma chi era il vero destinatario?
La ricerca storica ha seppellito l'idea che il lancio delle due atomiche possa avere avuto come obiettivo quello di costringere il Giappone alla resa. Giova forse insistere brevemente sull'argomento per sgomberare il terreno da ogni dubbio.
Già il rapporto finale dell'aviazione statunitense sul bombardamento di Hiroshima e Nagasaki (3) smentì le tesi ufficialmente sostenute da Truman secondo le quali i Giapponesi si erano arresi solo dopo aver constatato la propria impotenza di fronte alla forza distruttiva della bomba atomica. Il rapporto affermava testualmente che «(...) certamente prima del 31 dicembre 1945 e con ogni probabilità prima del 1° novembre 1945 [data prevista per l"'Operazione Olympic", cioè per l'invasione del Giappone da parte dell'esercito degli Stati Uniti] i Giapponesi si sarebbero arresi anche se la bomba atomica non fosse stata usata e anche se nessuna invasione fosse stata contemplata». Questa conclusione era confermata anche dalla prima stesura originale del rapporto finale dell'esercito sulla guerra condotta contro il Giappone. Il rapporto rivelava che l'Alto Comando giapponese aveva già preso la decisione di arrendersi il 26 giugno 1945, più di un mese prima del bombardamento di Hiroshima. Tutti i documenti militari un tempo segreti e ora divenuti di pubblico dominio smentiscono la pretesa di Truman che l'atomica sia servita a salvare le vite di un milione di soldati americani. Il Comitato degli Stati Maggiori Riuniti per la pianificazione della guerra era giunto alla conclusione già il 15 giugno 1945, due mesi prima di Hiroshima, che l'Operazione Olympic di invasione dell'isola giapponese di Kyushu prevista per il 10 novembre 1945, sarebbe costata forse 20.000 morti. Se ciò non fosse bastato a determinare il crollo finale del Giappone, un secondo sbarco nelle pianure di Tokyo avrebbe dovuto aver luogo intorno al 1° marzo 1946. Anche per questa seconda operazione i pianificatori prevedevano perdite non superiori a 20.000 uomini. Ma questi documenti sono rimasti inaccessibili per decenni. Truman continuò invece incessantemente a gonfiare le cifre. Quando era presidente diceva che le bombe di Hiroshima e Nagasaki avevano salvato le vite di 250.000 uomini; nel 1955 dichiarò che ordinando il bombardamento atomico aveva salvato le vite di mezzo milione di uomini, e finì per sostenere che la "saggia" decisione di atomizzare 300.000 Giapponesi aveva impedito a un milione di Americani di morire nell'invasione del Giappone (4).
Già nel 1948 il fisico inglese Blackett nel suo studio Military and Political Consecuences of Atomic Energy, Conseguenze militari e politiche dell'energia nucleare, era giunto alla conclusione, analizzando tutti i dati conosciuti fino a quel momento, che il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki non aveva avuto alcun valore militare.
Blackett fu poi seguito in questa interpretazione dei fatti da altri scrittori, anche americani, come Norman Cousin e Thomas Finletter. Quest'ultimo era un uomo dell'establishment e fu a capo prima dell'Air Policy Committee e poi della missione per il Piano Marshall a Londra.
Il ragionamento che questi autori, di ispirazione ideologica molto differente fra loro, sviluppano, è a un dipresso il seguente: all'inizio dell'agosto 1945 la motivazione originale della "corsa alla bomba", vale a dire il timore di vedere la Germania nazista vincere la competizione scientifica e tecnologica, non esisteva più. Hitler si era suicidato e la guerra in Europa era finita da due mesi. Il Giappone era già vinto e pronto a firmare la resa. La flotta e l'aviazione giapponesi erano state praticamente distrutte e gli aerei americani dominavano sia il territorio che le acque costiere del Giappone. Esistevano ancora un forte esercito sul territorio nazionale e l'armata del Kwantung dislocata in Manciuria, ma già a Tokio si discuteva dell'opportunità di arrendersi. L'invasione del territorio giapponese non era prevista prima del novembre 1945. È evidente che non esistevano motivi urgenti di carattere militare che potessero giustificare tanta precipitazione nell'impiegare le bombe atomiche. Precipitazione è il termine esatto. Soltanto tre settimane separarono il giorno in cui si accertò che era possibile usare la bomba atomica da quello in cui essa fu effettivamente impiegata contro il Giappone. Senza dubbio, in tutta la storia della tecnica militare, non vi è altro esempio di una simile precipitazione nell'uso di una nuova arma. Stimson rivelò successivamente che quelle bombe erano le uniche in possesso degli Stati Uniti in quel momento e che la fabbricazione procedeva molto lentamente. Quali furono, quindi, i motivi di tanta fretta?
Secondo gli autori menzionati un'altra considerazione si aggiunge per portarci alla conclusione che Truman e i suoi generali furono sospinti da una fretta diabolica derivante da motivi inconfessati. I governanti di Washington potevano facilmente prevedere le ripercussioni sfavorevoli che avrebbe avuto in tutto il mondo l'uso di un'arma così terrificante contro le popolazioni civili. Senza dubbio, i dirigenti americani dovettero rendersi conto della tremenda responsabilità che gli Stati Uniti si assumevano impiegando la bomba atomica e delle incalcolabili conseguenze che una tale decisione avrebbe avuto nel futuro. Il rapporto sugli «Aspetti sociali e politici della scoperta dell'energia atomica», steso dal cosiddetto "Comitato Franck" (5) e presentato al presidente degli Stati Uniti nel giugno del 1945, già ammoniva esplicitamente il governo a non usare la bomba atomica sulla popolazione civile. Questo Comitato comprendeva i più quotati fisici atomici americani e, certamente, aveva a Washington una considerevole influenza.
Perché presidente, governo e Stato Maggiore si siano risolti a passar sopra a una così autorevole raccomandazione, i motivi devono forzatamente essere stati gravi, impellenti e non di ordine militare.
I tre autori identificano questa motivazione nell'impegno che l'Unione Sovietica aveva assunto di intervenire contro il Giappone tre mesi dopo la fine della guerra in Europa. Tale impegno scadeva l'8 agosto 1945. Ecco come Blackett descrive le considerazioni che portarono gli strateghi di Washington alla decisione di bombardare: «Si consideri la situazione quale dovette apparire a Washington sulla fine del luglio 1945. Dopo una lotta vittoriosa, ma aspramente combattuta, le forze americane avevano distrutto la marina giapponese e la flotta mercantile, gran parte dell'aviazione e molte divisioni dell'esercito, ma non si erano ancora scontrate con il grosso delle forze terrestri. Se le bombe non fossero state lanciate, la progettata offensiva sovietica in Manciuria, così a lungo richiesta e così favorevolmente accolta (almeno ufficialmente), avrebbe comunque raggiunto i suoi scopi secondo i piani prestabiliti. Doveva averlo previsto chiaramente l'Alto Comando alleato, che ben conosceva la grande superiorità delle armate sovietiche in mezzi corazzati, artiglierie e aviazione. Senza il lancio delle bombe, l'America avrebbe visto le armate sovietiche impegnare in battaglia la maggior parte dell'esercito giapponese, invadere la Manciuria e fare mezzo milione di prigionieri. E tutto questo sarebbe accaduto mentre l'esercito americano si trovava lontano dal territorio nipponico, a Iwojima e Okinawa» (6). Ecco perché in tutta fretta le due bombe atomiche - le uniche esistenti - furono trasportate attraverso il Pacifico per essere sganciate su Hiroshima e Nagasaki, appena in tempo per ottenere che il governo giapponese si arrendesse unicamente alle forze americane.
Questa, per Blackett, fu la ragione reale per cui venne usato precipitosamente tutto l'arsenale atomico esistente su Hiroshima e Nagasaki: fare in modo che il Giappone si arrendesse esclusivamente a MacArthur e all'esercito degli Stati Uniti. L'offensiva sovietica seguì vittoriosamente il corso prestabilito, ma passò quasi inosservata tra la sensazione destata nel mondo dallo sganciamento delle due atomiche. Senza l'offensiva nucleare americana sarebbe toccato all'Armata Rossa sconfiggere sul campo di battaglia il grosso delle forze terrestri giapponesi. In tal caso la dimensione della vittoria ottenuta dall'Unione Sovietica nella seconda guerra mondiale si sarebbe ingigantita e l'influenza dell'URSS si sarebbe grandemente estesa in Oriente e in tutto il mondo. Il bolscevismo sarebbe stato il vero trionfatore del conflitto.
Anche Cousins e Finletter hanno portato validi argomenti a favore della tesi secondo la quale il motivo fondamentale della decisione di impiegare le bombe atomiche contro il Giappone fu di natura politica e non militare. Parlando dal punto di vista americano si sono chiesti innanzitutto se sarebbe stato possibile dare ai Giapponesi e al mondo una dimostrazione della potenza delle atomiche mediante un esperimento effettuato sotto il controllo delle Nazioni Unite per presentare poi un ultimatum al Giappone, rovesciando così sui Giapponesi stessi il peso della responsabilità. La risposta al quesito è negativa. Per Cousins e Finletter non c'era più tempo sufficiente, tra il 16 luglio, data dell'esperimento nel Nuovo Messico che dimostrò la possibilità di usare la bomba, e l'8 agosto, data in cui scadeva l'impegno preso dall'Unione Sovietica a intervenire contro il Giappone, per fare tutti i complicati preparativi richiesti da una esplosione atomica sperimentale. E concludono: «No, era impossibile effettuare un esperimento del genere se lo scopo reale era quello di mettere in ginocchio il Giappone prima che la Russia intervenisse». Senza falsi pudori i due autori, che come ripetiamo vedono le cose dal punto di vista americano, scoprono le carte, giustificando pienamente la distruzione esemplare di Hiroshima e Nagasaki ed esplicitandone il vero motivo. Dicono infatti: «E si può sostenere che questa decisione era giusta; che si trattava del legittimo esercizio della politica di potenza in un mondo crudele e tempestoso; che, agendo così, abbiamo evitato una lotta per il controllo effettivo del Giappone, quale vi è stata invece in Germania e in Italia; infine, che se noi non fossimo usciti dalla guerra in netto vantaggio sulla Russia, non avremmo avuto nessuna possibilità di opporci alla sua espansione» (7).
In base a tutte queste considerazioni, è difficile non condividere la conclusione, cui giunge Blackett, che «il lancio delle bombe atomiche, più che l'ultimo avvenimento militare della seconda guerra mondiale, rappresenta il primo atto della guerra fredda contro l'Unione Sovietica».
Questa interpretazione delle origini della guerra fredda è ormai ben documentata e sostenuta da tutta una nuova generazione di storici quali Gar Alperowitch, Barton J. Bernstein, Gregg Hèrken, Martin J. Sherwin e Daniel Yergin. Sarebbe ozioso insistere sull'argomento e rimandiamo i lettori a questi autori per maggiore documentazione.

NOTE

1. Rapporto ufficiale dell’'Army's Manhattan District Corps of Engineers’.

2. Per obiettività bisogna dire che il 10 agosto 1945 Truman non poteva avere notizie esatte sul genocidio perpetrato a Hiroshima. La radio giapponese aveva dato laconicamente la notizia dell'esplosione con il seguente comunicato: «La città di Hiroshima essendo stata sorvolata dal nemico che utilizzava una nuova bomba ha subito danni considerevoli». Tuttavia gli scienziati che avevano fabbricato la prima atomica avevano previsto 20.000 morti (il testo del discorso di Truman è ripreso dal quotidiano Le Monde di Parigi dell'11 agosto 1945).

3. Report on the Pacific War, US Air Force -United States Strategic Bombing Survey, Washington, 1946. Alla distruzione di Nagasaki assistette anche il rappresentante di Churchill, capitano Leonard Chesire.

4. Joint War Plan Committee, 369/1, June 15, 1945, file 384, Japan (5-3-44), Records of the Army Staff, Record Group 319, JCS; vedi anche Barton J. Bernstein, «A Postwar Myth: 500.000 US Lives Saved», Bulletin oJ the Atomic Scientists, Giugno/Luglio 1986, pagg. 38-40.

5. E. H. S. Burhop, Op. cit., pagg. 136-137; vedi anche Marc Ferro (a cura di), Hiroshima, la bombe, Parigi, 1986, pag. 38.

6. P. M. S. Blackett, Conseguenze politiche e militari della guerra atomica, Torino, pag. 184; vedi anche Gregg Herken, The Winning Weapon: The Atomic Bomb in the Cold War, 1945-1950, New York, 1980, pag. 343.

7. Norman Cousin e Thomas Finletter, in Saturday Review oJ Literature, Washington, 15 Giugno 1946. Ai lettori desiderosi di approfondire l'argomento segnaliamo alcune opere significative. Fra le memorie e le testimonianze, Avoir détruit Hiroshima, Parigi, 1962; Michihiko Hachiya, Journal d'Hiroshima, Parigi, 1956; Dr. Shuntaro Hida, Little Boy, Parigi, 1984; Robert Junck, Vivre à Hiroshima, 1960; Plus Jamais: Le combat pour la paix des survivants d'Hiroshima, Parigi, 1982; Filippo Gaja, Cronaca di un bombardamento atomico, Milano, 1985. Fra i lavori storici: James Byrnes, Cartes sur table, Parigi, 1947; John Ehrman, Grand Strategy. History of the Second World War, Londra, 1956; Beltrand Goldsmith, L'aventure atomique, Parigi, 1962; Margaret Gowing, Dossier secret des relations atomiques entre alliés, 1939- 1945, Parigi, 1965; Robert Guillain, La guerre au Japon, Parigi, 1979; Robert Junck, Plus clair que mille soleils, Parigi, 1958; Peter Wyden, Day One: Before Hiroshima and After, New York, 1985.









Antono Gramsci:Alcuni temi della quistione meridionale

Come si legge in 2000 pagine, cit., il manoscritto andò smarrito nei giorni dell'arresto di Gramsci e fu ritrovato da Camilla Ravera tra le carte che Gramsci abbandonò nell'abitazione di via Morgagni.
Il saggio fu pubblicato nel gennaio 1930 a Parigi nella rivista Stato Operaio, con una nota in cui è detto: «Lo scritto non è completo e probabilmente sarebbe stato ancora ritoccato dall'autore, qua e là. Lo riproduciamo senza alcuna correzione, come il migliore documento di un pensiero politico comunista, incomparabilmente profondo, forte, originale, ricco degli sviluppi piú ampi. ».




Questione elettorale borghese

Per un altro spunto (se ce ne fosse ancora bisogno) sulla questione elettorale borghese

Necessità di una preparazione ideologica di massa

di Antonio Gramsci , scritto nel maggio del 1925, pubblicato in Lo Stato operaio del marzo-aprile 1931. Introduzione al primo corso della scuola interna di partito




La legislazione comunista

Articolo apparso su L'Ordine nuovo anno II n.10 del 17 luglio 1920 a firma Caesar

Antonio Gramsci : Il Partito Comunista

Articolo non firmato, L’Ordine Nuovo, 4 settembre e 9 ottobre 1920.




Antonio Gramsci - Riformismo e lotta di classe

(l'Unità, 16 marzo 1926, anno 3, n. 64, articolo non firmato)




Antonio Gramsci : La funzione del riformismo in Italia

(l’Unità, 5 febbraio 1925, anno 2, n. 27, articolo non firmato)




Referendum sulla costituzione

Votare o non votare, è questo il problema?

Lettera di un operaio FIAT di Torino

" FCA, la fabbrica modello "

Elezioni borghesi: un espediente per simulare il consenso popolare!

Lo scorso 19 giugno, con i ballottaggi, si sono consumate le ennesime elezioni previste dal sistema democratico borghese. Si trattava di elezioni amministrative ma di alto significato politico nazionale.